L'angolo dello scrittore

Val di Susa, Stoccarda, Wall Street: scopri le differenze

di Helena Janeczek

Proteste che vanno avanti per anni, presidi e blocchi ad oltranza, cariche della polizia con centinaia di feriti, qualcuno quasi accecato dai lacrimogeni, manifestazioni a cui affluiscono in 100.000, ripercussioni elettorali, consultazioni- persino referendarie – per risolvere lo scontro tra cittadini e politica. Tutto questo è avvenuto a Stoccarda, capitale di uno dei Land tedeschi più ricchi e conservatori: per non far scavare un tunnel, abbattere un tot di alberi, spendere denaro pubblico per l’ampliamento di una stazione ferroviaria.
Il caso di “Stuttgart 21” è solo uno dei molti esempi a cui possiamo guardare per ampliare il nostro sguardo e capire cosa non va quando si cerca di riconoscere in ciò che accade qualcosa di inquadrabile in griglie già acquisite, con o senza l’ausilio di Pasolini e di una poesia dalla lunga tradizione di citazioni a casaccio.
Dipingere la mobilitazione contro la Tav come una battaglia localistica infiltrata dalle solite frange estreme – qualcosa di arcitaliano – significa non tener conto che fenomeni analoghi accadono anche laddove non ci sono né i nostri campanilismi, né continuità antagonistiche con gli anni ’70. La crisi della democrazia rappresentativa non è un problema solo nostro, benché ne incarniamo uno stato avanzatissimo, il peggiore in Europa con la Grecia.
A Stoccarda non hanno politici inquisiti, non esiste la certezza delle infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici e sopratutto non c’è ombra di crisi. La richiesta di motivare un forte investimento statale in una grande opera non deve misurarsi con tagli al welfare effettuati in un periodo di recessione. L’economia è fortissima (ci sono nei paraggi Daimler-Benz, Porsche, Bosch e una miriade di industrie superspecializzate in innovazione tecnologica), siamo al centro dell’Europa più produttiva. Gli ultimi dati di disoccupazione per il Baden-Württemberg parlano del 4,1%, il dato più basso di tutta la Germania.
Per questo, considerando le differenze e le analogie tra i due esempi, emerge con tanta chiarezza il cuore di un problema che può anche parzialmente trincerarsi dietro a retoriche verdi oltranzistiche o assumere tratti della difesa nimby (“non nel mio cortile”), ma è essenzialmente qualcos’altro: qualcosa di nuovo e irriducibile.
La crisi della democrazia rappresentativa esplode ora, proprio perché non siamo più negli anni ’70 e nella rivoluzione non spera più nessuno, nemmeno gli insurrezionalisti tanto menzionati, mentre il senso di distanza e impotenza rispetto a chi governa e decide si è fatto vertiginoso. In questo vuoto, una battaglia per un lembo di territorio può caricarsi di valenze molto più ampie, segnando il limite di esautorazione che si è disposti a accettare. Le lotte “biopolitiche” territoriali che uniscono la No Tav a Stoccarda (c’era anche una delegazione dalla capitale sveva in Val di Susa il 25 febbraio), ma anche all’esasperazione di Terzigno o di Chiaiano, rappresentano il corollario dei movimenti contro lo strapotere dell’economia e della finanza globale, da Occupy agli indignati.
Non se ne viene a capo concentrandosi su ingenuità e debolezze, così come è troppo facile bollare la presenza dei No Tav alla manifestazione della Fiom come alleanza tra incalliti nemici della modernizzazione. La questione dei diritti – dei lavoratori o degli abitanti della Val di Susa – non è stata una piattaforma comune velleitaria. In fondo è sempre a questo nocciolo che rimanda pure lo slogan del “diritto all’insolvenza” per quanto impraticabile e, a mio giudizio, sbagliato (per appianare il debito, dovrebbero pagare di più coloro che non l’hanno ancora fatto, portando anche a un mimino riequilibrio nella ridistrubuzione delle ricchezze). Forse sul piano della comunicazione può vincere una versione semplificata, ma il ricorso alla strategia mediatica, questa sì più profondamente collaudata in Italia nell’ultimo ventennio, non fa che erodere ulteriormente la fiducia nella democrazia. Chi pensa di cavarsela convincendo l’opinione pubblica anziché i cittadini nelle sedi di un confronto, ossia su quel terreno di mediazione di cui la politica dovrebbe riappropriarsi per suo stesso vitale interesse, rischia di trovarsi un domani con chissà quante Val di Susa senza capirne il nodo né come affrontarlo.

pubblicato in versione più breve su L’Unità 13 marzo 2012